11 Gen Un vaticinio inascoltato: l’autoritratto criptato di Domenichino
di Francesco Paolo Colucci
Le vicende relative ai lavori intrapresi dal bolognese Domenico Zampieri (1581-1641) per la Cappella del Tesoro di San Gennaro sono ben note agli studi storico-artistici; come ampiamente conosciute sono le vicissitudini affrontate dal pittore emiliano negli anni non proprio felici trascorsi all’ombra del Vesuvio. Ma finora non ci si era avveduti che, a testimonianza di tali avvenimenti, l’artista avesse lasciato la propria effige in uno degli affreschi realizzati nel santuario ianuariano, sul solco di una tradizione ormai lunga e consolidata che vedeva i pittori firmare orgogliosamente le proprie opere autorappresentandosi all’interno di esse. L’opera in esame è la lunetta posta nella controfacciata del tempio del Grimaldi rappresentante San Gennaro ferma l’eruzione del Vesuvio del 1631, sicuramente termina entro il 1633.
Nel lato destro del dipinto è possibile notare, alle spalle della scena della questua, quasi introdotto dal drappeggio svolazzante dello statuario flagellante, e proprio ad una spanna dal baldacchino con le reliquie del santo, un uomo di cui è visibile solo il volto, girato verso il riguardante; su questo viso dallo sguardo interrogatorio, palesemente preoccupato, non è mai stato espresso fino ad adesso alcun parere o tentativo d’identificazione da parte della precedente critica. Il misterioso personaggio fa emergere il proprio capo da una collocazione non proprio agevole, stretto com’è dalla presenza dei due uomini al suo fianco, che seppur con fattezze idealizzate, rappresentano il cardinale Francesco Boncompagni (1596-1641) arcivescovo di Napoli dal 1626 al 1641 e Manuel de Zúñiga y Fonseca, VI conte di Monterrey (1586-1653), vicerè di Napoli dal 1631 al 1637.
Il cammeo partenopeo sembra essere l’anello di congiunzione tra i due famosi e discussi autoritratti dello Zampieri, il primo conservato al Landesmuseum di Darmstadt, il secondo agli Uffizi di Firenze.
Ma la strana posizione assunta dal Domenichino nel dipinto, quasi obliterato dalla presenza dei due notabili al suo fianco, e la sua espressione atterrita, o forse sarebbe meglio dire angosciata, veicolano un messaggio ben più complesso della semplice rivendicazione del proprio operato. Una testimonianza dell’incipiente ma già profondo malessere vissuto dall’artista a Napoli che trova piena rispondenza nella lettera inviata dal bolognese all’amico collezionista Cassiano del Pozzo il 23 gennaio del 1632:
Al Sig. Cavalier Cassiano del Pozzo/ L’Autorità, che V. S. tiene sopra la persona mia, l’opinione che sopra i meriti ha mostrato aver sempre delle mie opere, e l’efficacia de’ suoi comandamenti, mi somministrano materia di grande confussione: perché conoscendomi io per una parte obbligato a corrispondere al desiderio di V. S. e per l’altra vedendomi legato le mani con catene di ferro non so dove voltarmi. Questi Signori hanno voluto ch’io mi obblighi a non dar pennellate durante l’opera, mi hanno astretto a prometter questo con cautele, mi hanno indotto a sottomettermi a pene non leggiere quando io fossi contumace; e gli emoli già stanno con li denti arrotati per danneggiarmi; e quando bene s’addormentassero, il tempo è tanto breve, che mi mette in angustie grandi, né vedo in tanta strettezza com’io possa cavar le mani da sì gran mole. Pertanto prego V. S. che siccome ha mostrato volontà grande di favorirmi, così si compiaccia per ora accettar queste scuse, che io le presento con ogni schiettezza, e sincerità d’animo; dandomi a credere, che non mancheranno occasioni, nelle quali potrà Ella esercitare il dominio, che tiene sopra la persona mia, e io la prontezza ad obbedire alli suoi comandamenti. Con che in fine pregandole da Dio nostro Signore il compimento d’ogni felicità le bacio le mani. Napoli 23 Gennaro, 1632. Obbligatissimo servitore./ Domenico Zampieri.
Sono i prodromi di un dramma che troverà il proprio spannung nella celebre fuga dello Zampieri a Frascati avvenuta nell’estate del 1634, proprio pochi mesi dopo essere stato pagato per il completamento della lunetta con l’Eruzione.
Il volto della Cappella del Tesoro di San Gennaro assume quindi i connotati di una sottilissima ed enigmatica damnatio memoriae. Un vaticinio inascoltato che non poteva trovare miglior collocazione se non in un dipinto che rappresentasse l’ eruzione del Vesuvio, dato che il suo artefice fu costretto a superare “tante difficoltà quante non sa ne può l’inferno tutto”.
Lo scritto è liberamente tratto da Francesco Paolo Colucci, Un vaticinio inascoltato: l’autoritratto criptato di Domenichino al Tesoro di San Gennaro, in Storia dell’Arte, 141, 2015, pp. 86-98